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Mai più senza respiro

La broncopneumopatia cronica ostruttiva è una malattia in continuo aumento, che rappresenta una sfida dal punto di vista clinico, economico, gestionale

Attacchi di tosse al risveglio, affanno nel salire le scale, respiro sibilante. Sono alcuni dei campanelli d’allarme della broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), una malattia polmonare progressiva, caratterizzata da un’ostruzione delle vie aeree, che rende difficoltosa la respirazione.

Una patologia che in Italia colpisce circa 3,5 milioni di persone e nel mondo 384 milioni, oltre l’11% della popolazione. Tra questi, la maggior parte sono anziani: in particolare, si stima che intorno ai 50 anni i malati siano circa il 7%, intorno ai 60 l’11-12%, oltre i 70 il 50-55%.

Nel nostro Paese, la Bpco è responsabile del 55% dei decessi per malattie respiratorie, mentre, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è la terza causa di morte a livello globale, con 3,23 milioni di morti nel 2019, l’80% dei quali nei Paesi a basso e medio reddito.

La terapia giusta per il paziente giusto

Per contrastare la malattia, serve innanzitutto una diagnosi corretta e tempestiva, da effettuare tramite una spirometria completa, un esame che prevede la rilevazione della quantità di aria che il paziente mobilizza respirando e del volume totale di aria contenuto nel polmone, considerando quella che permane nell’organo dopo l’espirazione.

Se gli accertamenti diagnostici confermano la presenza della patologia, si procede con la terapia, che, come sottolinea Giorgio Walter Canonica, professore straordinario di malattie respiratorie e responsabile del Centro di medicina personalizzata, asma e allergologia dell’Istituto clinico Humanitas di Milano, «è un sistema composto da inalatore e farmaco, che devono essere scelti nel modo giusto per il paziente giusto, in modo che il trattamento risulti appropriato».

In spray e polvere

«Oggi sono presenti sul mercato due principali categorie di inalatori, bombolette spray predosate a pressione ed erogatori di polveri, per un totale di ben 58 dispositivi», quantifica lo pneumologo. Tutti, per essere immessi sul mercato, devono rispettare i criteri definiti dalle agenzie regolatorie, che includono oltre 200 parametri di valutazione. In particolare, i dispositivi devono rilasciare una dose di farmaco prestabilita, in particelle molto fini, con un diametro che va da 0,5 a 5 micrometri, in grado di raggiungere i bronchi e i polmoni. Requisiti necessari, questi, ma non sufficienti per ottenere un risultato soddisfacente, visto che quest’ultimo dipende in gran parte dall’interazione tra device e utilizzatore.

«Le manovre richieste per il funzionamento degli inalatori vanno da un minimo di tre (aprire, inalare, chiudere) a un massimo di tredici», prosegue Canonica. «Solo il 20% dei pazienti li sa utilizzare correttamente dopo avere letto le istruzioni contenute nella confezione, una percentuale che può raggiungere il 50% se il medico si rende disponibile, anche tramite una dimostrazione pratica con un device placebo, a educare e ad addestrare l’assistito alla corretta tecnica inalatoria. Una volta che, anche in base all’abilità e alle preferenze del paziente, è stato selezionato un determinato tipo di dispositivo, è bene non cambiarlo, per scongiurare l’eventualità che l’utente, non conoscendo il nuovo device, finisca per non assumere il trattamento in modo corretto, andando incontro così a una mancata aderenza». Attualmente sono presenti su Youtube vari video che mostrano il giusto impiego dei diversi inalatori. «Un utile supporto», commenta l’esperto, «anche se accade che i pazienti, spesso in età avanzata, non abbiano le sufficienti competenze digitali per poterne fruire».

Numerose molecole a disposizione

All’inalatore deve poi essere associato il principio attivo corretto in base alle necessità del paziente e alla fase di malattia. Tra le molecole che si possono impiegare, vi sono innanzitutto i broncodilatatori, della cui categoria fanno parte i beta 2-adrenergici (beta 2-agonist), che stimolano i recettori beta 2 determinando una broncodilatazione, e gli anti-muscarinici (muscarinic antagonist), che bloccano i recettori M3 riducendo la broncocostrizione. «Attualmente è venuto meno l’impiego dei farmaci a breve durata d’azione (short acting), in favore delle molecole a lunga durata (long acting), che garantiscono un trattamento costante e continuativo», chiarisce Canonica. «In particolare, viene impiegata una combinazione di long-acting beta 2-agonist (Laba) e di long acting muscarinic antagonist (Lama) in un unico inalatore, che hanno un’azione rapida che dura almeno 12 ore».

In presenza di un’infiammazione di tipo eosinofilo, può poi essere aggiunto uno steroide per via inalatoria. «In particolare, sono attualmente a disposizione le triplici combinazioni, che abbinano Laba, Lama, corticosteroide in un solo inalatore», spiega il professore. «Tra le possibili associazioni si annoverano beclometasone, formoterolo, glicopirronio in doppia somministrazione giornaliera e vilanterolo, fluticasone, umeclidino in mono-somministrazione quotidiana. È stato dimostrato che la combinazione è in grado di aumentare l’aderenza terapeutica del paziente rispetto ai farmaci assunti singolarmente». Sconsigliabile, invece, l’impiego degli steroidi per via orale, che andrebbero prescritti solo nei casi acuti e per il minore tempo possibile. Questi farmaci sono, infatti, gravati da numerosi effetti collaterali, come ipertensione, diabete, cataratta, osteoporosi.

Conseguenze negative sulla salute dei pazienti, cui si sommano ingenti costi di gestione sanitaria. Da uno studio di farmacoeconomia condotto nel 2020, è, infatti, emerso che curare gli effetti avversi di questi medicinali nelle persone con asma grave comporta una spesa di 41 milioni di euro all’anno. E un esborso analogo si presume associato alla broncopneumopatia cronica ostruttiva. Per limitare l’abuso di steroidi, vengono ora in aiuto i farmaci biologici, che sono già una realtà nel caso dell’asma severa e una nuova frontiera nell’ambito della Bpco. «Per quanto riguarda quest’ultima, attualmente la ricerca si sta concentrando su anticorpi monoclonali che consentono di diminuire l’infiammazione di tipo eosinofilo», precisa il docente, «ma presto verranno sviluppati medicinali in grado di colpire anche altri tipi di infiammazione, come per esempio quella di tipo neutrofilo. Nel giro di cinque anni, avverrà una rivoluzione».

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