Una ricerca condotta da un team della Northwestern University ha identificato un composto promettente che, nel modello sperimentale animale, contrasta la degenerazione motoneuronale indotta dalla SLA.
SLA: le ipotesi eziopatogenetiche
La SLA è una malattia dei motoneuroni, sia superiori che inferiori, che conduce alla progressiva paralisi dei muscoli volontari, inclusi quelli coinvolti nella deglutizione ed in funzioni vitali come quella respiratoria.
Fra i meccanismi d’azione proposti per spiegare la sua insorgenza e la sua evoluzione, le più accreditate coinvolgono i mitocondri, le centrali energetiche della cellula, e il reticolo endoplasmico, all’interno del quale si verifica parte della sintesi proteica. L’accumulo intracellulare di proteine mutate si concentrerebbe proprio in queste sedi, producendo un contributo decisivo alla degenerazione dei motoneuroni.
Due fra le proteine correlate alla formazione di questi depositi sono la SOD1 (coinvolta nei meccanismi di controllo dello stress ossidativo) e la TDP-43 (che riveste funzioni strategiche nel metabolismo dell’RNA).
Un composto innovativo
Attualmente sono disponibili due farmaci approvati per il trattamento della SLA, il riluzolo e l’edaravone, entrambi associati a risultati clinici molto limitati.
Malgrado le aspettative elevate, entrambe queste molecole non hanno portato vantaggi di peso nella gestione della malattia. Sia riluzolo che edaravone sono correlati a un prolungamento del tempo di sopravvivenza del paziente di qualche mese.
Dato l’elevato bisogno terapeutico legato a questa malattia, sono numerose le sperimentazioni attive finalizzate allo sviluppo di una terapia efficace e di farmaci in grado di controllarne meglio la sintomatologia.
Un gruppo di ricerca guidato da Hande Ozdinler, docente di Neurologia alla Feinberg School of Medicine della Northwestern University, ha identificato quello che potrebbe essere il primo composto in grado di rendere reversibile la degenerazione dei motoneuroni superiori.
Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Clinical and Translational Medicine.
La svolta del target terapeutico
A differenza dei loro omologhi inferiori, che trasmettono il segnale nervoso dal midollo spinale ai muscoli volontari, i motoneuroni superiori lo veicolano a monte, dall’encefalo al midollo spinale.
La loro azione consiste nel dare inizio al movimento e nel modularlo durante la sua esecuzione.
Per la loro azione, sono definiti i commander-in-chief del movimento.
Un farmaco attivo sulla degenerazione dei motoneuroni superiori avrebbe quindi effetti sulle conseguenze cerebrali della SLA, le prime a manifestarsi lungo il decorso della malattia.
Il probabile meccanismo d’azione
Il meccanismo d’azione della molecola in esame NU-9 passa attraverso il folding delle proteine coinvolte nella formazione delle inclusioni intracellulari.
NU-9 favorirebbe il corretto ripiegamento di SOD1 e TDP-43, impedendone la precipitazione, presente in oltre il 90% dei casi di SLA.
I risultati osservabili nel modello animale evidenziano un miglioramento nel funzionamento dei mitocondri (con un aumento dell’87% nel numero dei mitocondri funzionanti) e del reticolo endoplasmico.
In particolare, i motoneuroni trattati con NU-9 non mostrano le caratteristiche alterazioni anatomiche dei dendriti tipiche della malattia, con un’efficacia dose-dipendente.
Il composto ha mostrato un’attività neuroprotettiva specifica nei confronti dei motoneuroni superiori.
Le prospettive della ricerca clinica
I ricercatori hanno osservato a 60 giorni un aumento del numero di motoneuroni superiori in condizioni paragonabili a quelle degli animali sani di controllo, con un miglioramento generale nelle performance di movimento.
NU-9 è un composto in grado di attraversare la barriera emato-encefalica, che, nelle fasi precliniche nel modello murino, ha espresso buoni dati di sicurezza.
Attualmente il team che ha condotto le fasi di ricerca preliminari sta valutando l’opportunità di avviare una sperimentazione clinica.
Per la sua azione sui motoneuroni superiori, NU-9 potrebbe rappresentare un contributo importante in terapia non solo per la SLA, ma anche per altre patologie (oggi orfane) che aggrediscono queste cellule, come la paraplegia spastica ereditaria e la sclerosi laterale primaria.
Lo studio è finanziato dal National Institute on Aging dei National Institutes of Health e da alcune fondazioni private che sostengono la ricerca scientifica sulla SLA.